Ringraziamo Marco Marchei (pettorale 15) per averci dato la possibilità di pubblicare il suo ricordo della Boston Marathon 1980…BUONA LETTURA
(Photo courtesy of Charlie Rodgers)
Ieri, 20 aprile, terzo lunedì del mese come da tradizione, si sarebbe dovuta disputare la 124esima edizione della Maratona di Boston, la cui data, per via delle restrizioni imposte dalla pandemia Covid-19, è stata invece spostata a fine estate, il 14 settembre. Una gara mitica, della quale esattamente quarant’anni fa, il 21 aprile 1980, sono stato uno dei protagonisti principali, finendo secondo alle spalle del marziano Bill Rodgers (in 2:13’20”) e, col senno di poi, rischiando addirittura di fare il colpaccio.
A Boston, in verità, noi italiani non abbiamo mancato di lasciare il segno. Nel 1990, dieci anni dopo il mio secondo posto, vi ha infatti trionfato Gelindo Bordin, sfatando, tra l’altro, una sorta di maledizione: fino ad allora un campione olimpico non aveva mai vinto la più classica delle maratone americane. Nel 1988 Bordin era già arrivato quarto (in 2:09’27”), subito davanti a Gianni Poli (2:09’33”), e comunque prima di lui, nel 1986, era salito sul podio Orlando Pizzolato, terzo in 2:12’13”. Per la cronaca, il primo italiano a partecipare alla Boston Marathon è stato Antonio Ambu, nel 1967, portando a casa un più che onorevole quinto posto in 2:18’08”.
Tornando a quarant’anni fa, si è trattato di un’edizione memorabile, ovviamente per me e per il movimento della maratona di quei tempi, ma anche e soprattutto per un paio di episodi decisamente inusuali ed effettivamente gravi. Uno in particolare, se valutato alla luce dei fatti che la storia ci propone negli ultimi anni, appare paradossale o per lo meno curioso. Ma andiamo per ordine.
UNA SCOMMESSA RISCHIOSA
Molto amareggiato per l’epilogo della maratona dei Giochi del Mediterraneo (a Spalato, a fine ’79, il percorso troppo corto non mi aveva consentito di rimontare i pochi secondi che mi dividevano dal greco Koussis e di vincere la gara) avevo deciso, in accordo col mio allenatore Giorgio Rondelli, di puntare a una gara importante per rincorrere un grande piazzamento e un risultato cronometrico di rilievo. Tra le classiche estere di primavera avevamo scelto Boston, gara che ben si adattava alle mie capacità di saper correre su percorsi ondulati, ma che presentava una controindicazione: si disputava nei giorni del Campionato italiano che avrebbe scelto i tre azzurri per l’Olimpiade di Mosca di quattro mesi dopo. Dopo aver vinto, al termine di una lunghissima volata con Franco Fava, la Roma-Ostia (che allora era di 31 chilometri) su un percorso molto simile a quello di Boston, riuscimmo a fare una sorta di scommessa con Enzo Rossi, il Commissario Tecnico azzurro di allora. In America mi sarei giocato tutto: in caso di superprestazione sarei stato esentato dalla selezione, andando diritto all’Olimpiade; in caso contrario sarei rimasto inappellabilmente a casa.
Tentammo in ogni maniera, senza riuscirci, di ottenere un invito dall’organizzatore di allora, mister Will Clooney. Anche lui fu perentorio: «Vieni pure, ma contribuirò solo se sarò soddisfatto della tua prestazione». Alla fine il viaggio fu anticipato dalla mia società, la Pro Patria. A Boston scesi all’Hotel Sheraton accompagnato da Giorgio Rondelli: avevamo i soldi contati ed eravamo perfettamente consapevoli che l’eventualità che fossimo ospiti era tutta affidata alle mie gambe.
Non potevo permettermi di sbagliare, insomma, ma ero decisamente in forma e le buone sensazioni che provavo in allenamento contribuivano a stemperare non poco la grande tensione.
A mantenerci sereni contribuì non poco la compagnia di Guido Bagatta e Flavio Vanetti, giornalisti oggi molto noti ma allora alle prime armi, che erano negli Stati Uniti per farsi le ossa con le prime corrispondenze. Guido, col suo inglese fluente, fu, di fatto, il mio addetto stampa fino alla vigilia della gara, quando si trasferì con Flavio a Seattle per le finali della East Conference di basket (una fuga nel timore di una mia défaillance…?).
RODGERS MINACCIATO DI MORTE
In quegli anni Bill Rodgers era il maratoneta più amato d’America. Con i suoi quattro successi nella maratona di New York e i tre in quella di Boston, era riuscito a ritagliarsi un grande spazio nel cuore dei suoi connazionali al pari del mitico Frank Shorter, il vincitore dell’oro olimpico a Monaco ’72. Bostoniano purosangue, in quel 1980 “Boston Billy”, com’era appunto soprannominato, rincorreva nella sua città il quarto successo ma soprattutto il suo sogno olimpico. Però… l’anno precedente i sovietici avevano invaso l’Afghanistan e il 12 aprile, 9 giorni prima della gara, il presidente Jimmy Carter, sostenuto dal Comitato Olimpico americano, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero boicottato l’Olimpiade di Mosca.
Rodgers, che vedeva andare in fumo tutti i sogni di gloria, ebbe una reazione rabbiosa e non fece mistero di essere in disaccordo col Presidente. La sua posizione fu stigmatizzata dalla stampa secondo cui dichiarazioni così antipatriottiche stavano proprio male in bocca a uno che voleva trionfare nella maratona più importante d’America, corsa per di più, come da tradizione ormai quasi centenaria, il terzo lunedì d’aprile, cioè il giorno del Patriot’s Day, la festa nazionale per eccellenza degli statunitensi. La tensione raggiunse livelli tali che la vigilia della gara una voce sibilante annunciò telefonicamente a Rodgers che non avrebbe mai superato vivo Coolidge Corner, uno dei punti più significativi del percorso.
Minaccia di un mitomane o reale pericolo? Furono in pochi, pochissimi, a sapere della cosa. Alla fine Rodgers decise di partire comunque. Will Clooney, da parte sua, prese le debite precauzioni organizzando, con l’aiuto della polizia, un servizio di scorta che proteggesse il più possibile l’atleta da eventuali attentati.
UNA GARA BLINDATA
Il fatidico lunedì fa eccezionalmente caldo data la stagione. Al momento della partenza, data a mezzogiorno, la temperatura è di 19 gradi (e aumenterà fino a 27). Il sottoscritto e l’amico-rivale Michael Koussis (vincitore, l’anno prima, di quei Giochi del Mediterraneo per me così indigesti) vanno subito in testa e si producono addirittura in una fuga precoce che si protrae per parecchi chilometri. Da dietro rimonta Ron Tabb – uno dei migliori maratoneti Usa di allora, noto per anche per essere il marito della bella (e forte ) Mary Decker, altra atleta iconica a stelle e strisce – e Koussis si stacca. Poco dopo il diciannovesimo chilometro veniamo agganciati, superati e staccati da Bill Rodgers e Kirk Pfeffer. Quest’ultimo passa a Wellesley, poco oltre metà gara, in 1:05’49”, noi a seguire un po’ più indietro. Pfeffer si ritira intorno al 25° chilometro, Tabb perde terreno. Rodgers è lì davanti, ma non lo vedo. Sia lui che io siamo circondati da poliziotti in motocicletta. Non riesco a scorgere neanche chi mi sta dietro. Il caldo è terribile, l’odore acre del gas di scarico delle moto mi prende alla gola, ma sono comunque a mio agio sui continui saliscendi. Supero di slancio la Heartbreak Hill, la famigerata “collina spezzacuore” prima di lanciarmi nella lunghissima discesa che porta all’arrivo. Alla fine accuserò 69 secondi di ritardo da Rodgers (2:12’11” per lui, 2:13’20”, ampiamente primato personale, per me); terzo è Tabb in 2:14’48”, quarto Koussis in 2:16’03”, record nazionale greco.
A PROPOSITO DI AFGHANISTAN
L’episodio della Ruiz (sembra appurato che la maratoneta di origine cubana, che peraltro è mancata nel luglio dello scorso anno, non abbia tagliato il percorso bensì che vi sia entrata sul finale) non è notissimo, nonostante si tratti probabilmente dell’unico caso di clamorosa frode ai danni di una grande maratona. Ma anche quello che riguarda Rodgers non è particolarmente conosciuto. Noi lo sapemmo qualche tempo dopo, leggendo le cronache dei periodici americani. Dopo quella maratona di Boston, Bill non fu più lui. Chiuse, di fatto, coi grandi appuntamenti, cominciando a correre all’estero, quasi da turista, maratone minori. A proposito dell’Olimpiade mancata, mi chiedo se non si senta beffato oggi che in Afghanistan ci sono gli americani…
Con un pizzico di cinismo ogni tanto penso che se quel giorno si fosse ritirato avrebbe fatto la mia fortuna. Per la cronaca, quel secondo posto mi consentì di correre all’Olimpiade di Mosca, di non pagare il nostro conto dell’albergo, di avere il rimborso del viaggio aereo e… di portarmi a casa un trofeo particolare, bellino ma piuttosto fragile, tanto che ogni tanto perde un pezzo. Quelli erano i tempi in cui i premi in denaro in atletica erano ancora fuori legge, vigeva il sottobanco e purtroppo io ero ancora troppo poco noto. Appena due anni dopo le regole erano cambiate e per il secondo classificato c’era un assegno di venticinquemila dollari. E, mi dicono, un trofeo un po’ più… solido.